Nei cani, casi sporadici di infezione da Covid-19 sono stati descritti in diverse parti del mondo sin dall’esordio della pandemia. Il primo caso è stato segnalato, infatti, già a fine febbraio 2020 in un volpino di Pomerania di 17 anni di Hong Kong. Altri casi sono stati poi osservati in USA, Giappone, Canada e Paesi Bassi.
Solo in pochissimi di questi, i cani infetti hanno sviluppato una modesta sintomatologia respiratoria, risolta in alcuni giorni, mentre la maggior parte delle infezioni è stata di tipo completamente asintomatico.
A capire meglio e a spiegarci quale è il ruolo epidemiologico del cane nella pandemia è Nicola Decaro, Professore ordinario di Malattie Infettive degli Animali presso l’Università degli Studi di Bari e consulente esperto MYLAV.
Indice dei contenuti
A Bari il primo caso di un cane positivo al Covid-19 in Italia
Il recente caso di un cane positivo al Covid-19 in provincia di Bari ha causato un ingiustificato allarmismo nella popolazione ed in particolare nei proprietari di animali domestici.
Il cane, un barboncino di 1 anno e mezzo, appartenente ad una famiglia di positivi per Covid-19, non ha sviluppato alcuna sintomatologia, ma è semplicemente risultato positivo al test per alcuni giorni consecutivi, per poi negativizzarsi.
In tutti i tamponi effettuati sull’animale sono stati riscontrati bassissimi titoli virali, per cui il cane non avrebbe potuto infettare alcun essere umano o animale.
I cani si sono infettati a causa del contatto con i proprietari positivi
In tutti i casi segnalati, inoltre, questi animali si sono infettati a causa del contatto stretto e prolungato con pazienti umani positivi e presentavano nei loro secreti ed escreti (tamponi nasali, orofaringei e feci) titoli virali molto bassi, considerati quindi non infettanti.
Anche le prove di infezione sperimentale hanno confermato che il cane non ricopre assolutamente un ruolo epidemiologico nella pandemia.
Lo studio condotto dall’Università di Bari
Uno studio condotto dal Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Bari, in collaborazione con Università di Milano, Liverpool School of Tropical Medicine e laboratori diagnostici veterinari (MyLav Laboratorio LaVallonea e i-Vet) ha dimostrato che alcuni cani e gatti, che vivevano nelle regioni maggiormente interessate dalla prima ondata pandemica, possedevano anticorpi specifici per SARS-CoV-2.
Nessuno degli animali testati, però, era finora risultato positivo al test molecolare, per cui è ragionevole pensare che questi pochi animali si erano infettati prima del campionamento ed avevano già superato l’infezione.
La maggior parte degli animali sieropositivi appartenevano a famiglie con casi di COVID-19, testimoniando ancora una volta che è lo stretto contatto con persone infette a favorire il passaggio dell’infezione ai nostri animali domestici.
Cani e gatti che vivono in famiglie positive al Covid-19 devo essere “protetti” dal contagio
In conclusione, sia i casi di infezione naturale che le prove di infezione sperimentale documentano una scarsa sensibilità del cane nei confronti di SARS-CoV-2 ed un ruolo epidemiologico trascurabile, se non del tutto inesistente.
Rispetto ai quasi 60 milioni di uomini contagiati dal virus in tutto il mondo, non esiste, ad oggi, un solo caso di trasmissione dal cane (o dal gatto). I cani, al massimo, sono “vittime” del contagio da parte dell’uomo e non untori.
Proprio per questo, secondo il principio di massima cautela, secondo le linee guida di tutte le società scientifiche internazionali che si occupano degli animali da compagnia, i cani (ed i gatti) che vivono in famiglie positive per COVID-19 devono essere “protetti” dal contagio, per cui si consiglia di farli accudire dai componenti della famiglia non infetti oppure, in caso di positività dell’intero nucleo familiare, da parenti o amici che magari possano tenerli a casa propria per tutto il tempo necessario.