
Analizziamo quando le definizioni giuridiche condizionano l’applicabilità delle norme.
Una controversia riguardo alla proprietà di un animale, frutto dell’incrocio tra un cane domestico e un lupo, che ha opposto un privato al Ministero dell’Ambiente, ha proposto l’esigenza di un approfondimento sulla condizione giuridica dell’ibrido.
Animale domestico o appartenente alla fauna selvatica e quindi proprietà indisponibile dello Stato? La questione rileva, dal punto di vista giuridico, nella scelta di quale normativa ritenere applicabile a un animale simile: se quella sugli animali d’affezione o quella di tutela della fauna selvatica.
Ciò fa la differenza ai fini del destino dell’animale: detenibile da un privato, nel primo caso, destinato a un Centro di recupero nel secondo.
Per trovare una risposta, è necessario stabilire quale dei due genitori si deve considerare prevalente sullo status giuridico del soggetto derivante da un incrocio, tenendo conto che, attualmente, non esiste una normativa chiara e univoca che contempli la categoria dell’ibrido tra animale selvatico e animale domestico.
Secondo la classificazione tassonomica di Linneo (1758), peraltro, sia il cane che il lupo appartengono alla medesima Classe (Mammiferi), al medesimo Ordine (Carnivori), alla medesima Famiglia (Canidae), al medesimo Genere (Canis) e alla medesima Specie (Lupus).
Il lupo, inoltre, è riconosciuto come progenitore del cane domestico che, secondo una recente revisione, è indicato come forma domesticata del lupo con il nome di Canis lupus familiaris (Wilson e Reeder, 1993); mentre il lupo è assegnato alla sottospecie Canis lupus italicus (Nowak e Federoff, 2002). Quindi, cane e lupo sono due sottospecie diverse della medesima specie.
Per quanto riguarda la normativa vigente che individua la fauna selvatica, si evidenzia che l’art. 2 della Legge n.157/1992 – Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio, limita l’ambito di applicazione alle “…specie di mammiferi e di uccelli delle quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale” e stabilisce che: “Sono particolarmente protette, anche sotto il profilo sanzionatorio, le seguenti specie: a) mammiferi: lupo (Canis lupus…”.
La Legge n. 59/1993, di modifica e integrazione della Legge 7 febbraio 1992, n. 150, in materia di commercio e detenzione di esemplari di fauna e flora minacciati di estinzione (la legge relativa all’applicazione in Italia della Convenzione di Washington sul commercio di specie rare e minacciate di estinzione – Cites), definisce “di specie selvatica” solo la fauna nell’ambiente naturale e gli animali nati in cattività limitatamente alla prima generazione.
La nota di chiarimento allegata al Regolamento (CE) n. 338/97, modificato con Regolamento (UE) n. 101/2012, relativo alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio, al punto 10 dell’allegato intitolato “Note sulla interpretazione degli allegati A, B, C, D” include solo gli ibridi con certe caratteristiche biologiche nella tutela delle specie selvatiche.
Trattando nello specifico del lupo, una nota del nostro Ministero dell’Ambiente, della tutela del territorio e del mare (Prot. n. 28435 – 18.10.2012 PNM –II) ha affermato che solo agli ibridi con determinate caratteristiche biologiche e “viventi in libertà” si deve estendere la tutela prevista per le specie selvatiche, invece di disporne il ricovero in canile.
Su questa indefinita situazione normativa, si è innestato un indirizzo giurisprudenziale, definito in particolare dalla sentenza Cass. pen. n. 2598/2004, che ha introdotto un criterio interpretativo in base al quale possono rientrare nel campo di applicazione delle norme a tutela della fauna selvatica gli animali abituati a condizioni di vita in libertà (assimilabili a quelle della fauna selvatica propriamente detta).
A un ibrido cresciuto in ambiente domestico, dunque, tale tutela non deve obbligatoriamente essere estesa.
Ne deriva che all’ibrido è riconosciuta la possibilità del doppio trattamento, da animale selvatico o da animale domestico, a seconda della situazione in cui vive.
Tale situazione si spiega anche considerando che, in linea generale, l’ibrido è ritenuto una minaccia per la conservazione della specie selvatica.
Per questo esso è, per sua natura, escluso dall’applicazione delle norme di tutela della fauna selvatica, fatti salvi i casi in cui, per certe caratteristiche biologiche e per le condizioni di vita, non sia assimilabile alla stessa.
Poiché sono rilevanti le caratteristiche biologiche degli ibridi, è necessario approfondire anche cosa si intende per animali selvatici nati o riprodotti in cattività.
Un esemplare nato in cattività è un soggetto nato da genitori, di cui almeno uno di origine selvatica, che siano riprodotti in ambiente controllato (Legge 150/92, art. 8 sexies, lett. d). Pertanto, l’animale nato in cattività è un esemplare di prima generazione (F1), mentre l’animale riprodotto in cattività appartiene alla seconda (F2).
Si può quindi concludere che per la legge italiana vigente è “selvatico” al massimo un soggetto di seconda generazione (F2).
Tale schema, comunque, vale chiaramente per la progenie derivante da due genitori di specie selvatica, mentre non si trova alcun riferimento che consenta di estendere tali definizioni giuridiche, e quindi le disposizioni che vi si applicano, ad animali nati dall’incrocio con una sottospecie domestica.
Pertanto, è possibile confermare che lo status di ibrido tra selvatico e domestico (incrocio tra lupo e cane) risente di un vuoto normativo.
Applicabilità di una norma all’ibrido, una questione difficilmente risolvibile Nella delibera del 20 luglio 2011, la XIII Commissione permanente Agricoltura presso la Camera dei deputati, affrontando la problematica dei danni da predazione alle produzioni zootecniche e agricole, causati da cani rinselvatichiti (originariamente domestici), aveva sostenuto l’impossibilità di applicare la normativa che disciplina i risarcimenti per le predazioni da fauna selvatica a quelle compiute da tali soggetti, proprio evidenziando il vuoto normativo nei riguardi dell’ibrido di cane e lupo, che rende impossibile assimilarlo al lupo selvatico.
Inoltre, la normativa Cites rende la specie lupo oggetto di massima tutela, ma non prevede la categoria o definizione dell’ibrido tra cane e lupo.
In più, la sottospecie Canis lupus familiaris risulta addirittura esclusa esplicitamente dall’applicabilità della normativa.
Questo rende difficilmente risolvibile la questione dell’applicabilità di una norma all’ibrido tra una sottospecie destinataria della norma stessa e un’altra esplicitamente esclusa. A ciò si aggiunga che il legislatore non utilizza praticamente mai il termine “ibrido”.
Come ricordato, tale termine si rinviene nella nota interpretativa agli allegati A, B, C, D del Regolamento comunitario n. 338/97, ma non in una disposizione compresa nel testo del Regolamento.
Peraltro, non si deve dimenticare che la succitata nota si riferisce a ibridi con certe caratteristiche biologiche: in particolare agli ibridi che entro la 4° generazione della loro ascendenza presentino un esemplare contemplato negli elenchi di cui all’allegato A o B. È, però, nota l’impossibilità oggettiva della scienza genetica di accertare l’appartenenza a una generazione specifica di ibridazione tra lupo e cane.
Infatti, come affermato nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. III, n. 4639, del 11 settembre 2014 (che ha sancito l’illegittimità della revoca dell’affidamento a un privato di un esemplare vivo ibrido di Canis lupus italicus), “anche il dato risultante dall’analisi della sequenza del DNA mitrocondriale circa l’origine matrilineare non significa che la madre del soggetto sia un lupo, dato che il dato mitocondriale può rimanere inalterato per molte generazioni e non può determinarsi se la femmina abbia conservato anche dopo diversi incroci l’aplotipo mitocondriale caratteristico della popolazione di lupo”.
La giurisprudenza di legittimità, con la Sentenza n. 2598 del 2004, ha chiarito la distinzione tra fauna domestica e fauna selvatica, collegando le definizioni giuridiche di interesse al livello di vicinanza e dipendenza della fauna rispetto all’uomo, a prescindere dalla classificazione zoologica.
Questo elemento è stato utilizzato anche dal Consiglio di Stato, sancendo che, se un esemplare è effettivamente trattato come un qualsiasi animale domestico, esso deve essere ricondotto a tale categoria giuridica e non gli può essere applicata la normativa sulla fauna selvatica.
Una posizione che si allinea con la definizione di animale domestico introdotta con la Legge 201/2010, di ratifica della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, laddove all’articolo 1 si definisce animale domestico: “Qualsiasi animale tenuto o destinato ad essere tenuto dall’uomo per compagnia o comunque nel suo alloggio domestico.”
A cura della Dott.ssa Paola Fossati