La Cassazione penale, nella sentenza 11700 del 2012, ha sancito che non è punibile come appropriazione indebita l’acquisizione di un cane ritrovato vagante e privo di segni di riconoscimento – come il microchip – idonei a riconoscerne la proprietà.
Sul punto, la Suprema Corte ha osservato che l’assenza di microchip (anche di un tatuaggio, targhetta o altro) in un cane ritrovato vagante rende “del tutto ragionevole” ritenere che lo stesso non sia di proprietà altrui e “plausibile” la convinzione di aver trovato un cane abbandonato o, per dirlo sempre con le parole dei giudici, “un cane ‘randagino’”.
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Senza microchip, non c’è prova certa che il cane sia di proprietà
In sostanza, la Cassazione ha stabilito che la mancanza del microchip (e, quindi, dell’iscrizione alla Anagrafe) impedisce di ricavare una prova certa che il cane sia di proprietà di un terzo e rende insussistente il dolo nell’azione di acquisizione dell’animale, cioè la coscienza e la volontà di commettere un reato.
Per questo viene meno l’elemento soggettivo del reato stesso ossia il nesso psichico intercorrente tra il soggetto che agisce e il verificarsi dell’atto.
Poiché l’elemento soggettivo è indispensabile per l’esistenza del reato, si comprende la rilevanza che può raggiungere l’uso dell’identificazione e dell’Anagrafe degli animali d’affezione.
È indubbio che tale rilevanza si completi potendo garantire una completa efficienza del sistema, consentendo non solo l’identificabilità degli animali attraverso un numero di microchip, ma anche la loro completa e immediata tracciabilità.
In tale direzione si colloca, dunque, la prospettiva di poter usufruire di informazioni direttamente accessibili e la creazione di un raccordo operativo più rigoroso tra le Anagrafi regionali e quella nazionale.