Maltrattamento animale: la Cassazione, per condannare, chiede le prove

Una recente sentenza della Corte di cassazione stabilisce che la sussistenza dei reati che compromettono il benessere e la salute psico-fisica degli animali debba basarsi su valutazioni di merito.

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A cura di: Dott.ssa Paola Fossati

maltrattamento animale
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In materia di maltrattamento animale, con la sentenza 36377/2015, la Corte di cassazione riapre la questione dell’interpretazione dell’art. 727 comma 2 Cp, come modificato dalla Legge n. 189/04 (in materia di tutela degli animali dal maltrattamento).

Tale articolo, recante la disciplina del reato di abbandono di animali, prevede infatti, al secondo comma, che con la medesima pena sia punita anche la detenzione degli animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.

La Suprema corte nella sua pronuncia ha evidenziato che proprio la sussistenza della manifestazione di un livello grave di sofferenza costituisce condizione imprescindibile per la configurabilità del reato di maltrattamento.

Nello specifico caso esaminato, ritenendo che non ne fosse stata dimostrata l’evidenza, ha confermato l’annullamento di un provvedimento di sequestro preventivo a carico di un canile nella cui gestione erano state riscontrate gravi irregolarità, ritenute idonee a incidere negativamente sulle condizioni di benessere dei cani ospitati.

La questione è senza dubbio rilevante, poiché richiama la necessità di definire il concetto di sofferenza applicato agli animali, configurandone anche una graduazione; poi perché rende palese quanto gli sforzi compiuti dal legislatore (norme di protezione animale che codificano gli adempimenti obbligatori nei vari settori) creino quadri la cui cornice, sebbene giuridicamente vincolante, può non adattarsi sempre alla realtà.

Ai fini dell’accertamento, tutto questo rileva delle responsabilità, in particolare penali.

IL REATO DI MALTRATTAMENTO ANIMALE NON È SOVRAPPONIBILE AL REATO DI ABBANDONO

Giova ricordare che la giurisprudenza e la dottrina hanno più volte precisato i presupposti che delimitano lo spazio applicativo dei reati in danno di animali, prendendo in considerazione sia i dettati normativi sia gli apporti della scienza in materia, al fine di individuare i requisiti dì applicabilità dei primi in coerenza con i secondi.

Ne sono derivate indicazioni relative all’ambito di applicazione dell’art. 727 comma 2 Cp, ribadite più volte dalla Suprema corte, per cui il reato di ‘abbandono di animali’ (che comprende anche la detenzione in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze) non si ascrive solo ai comportamenti dell’uomo che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali, ma anche alle condotte che incidono sulla sensibilita di un animale, producendogli una sofferenza significativa (Sez. 3° 22.11.2012 n. 49298, Tomat. Rv. 253882; idem 7.11.2007 n. 44287, Belloni Pasquinelli, Rv. 238280).

È stata quindi in più pronunce riconosciuta anche agli animali la condizione di esseri viventi e senzienti che, in quanto tali, risentono di un eventuale trattamento non idoneo.

Su tali basi, si è resa dunque necessaria la valutazione del rapporto tra il reato di cui all’art. 727 comma 2 Cp e il delitto di ‘maltrattamento di animali’ (di cui all’art. 544- ter Cp), spesso considerati sovrapponibili. In realtà, dal punto di vista giuridico, si tratta di due comportamenti puniti dal Cp in forma diversa: di contravvenzione nel primo caso e di delitto nel secondo.

Significa che la detenzione causante gravi sofferenze può comportare  responsabilità anche “solo” per colpa (cioè per negligenza, imprudenza, imperizia nel comportamento, senza reale intento malevolo), mentre il maltrattamento, per essere considerato tale, deve essere sempre sostenuto dal dolo (cioè la coscienza e la volontà di arrecare danno).

È interessante osservare però che la giurisprudenza si è espressa proponendo una chiave di lettura dell’elemento psicologico inducente il comportamento di mantenere un animale in condizioni incompatibili con la propria natura e tale da provocargli sofferenze gravi, sulla cui base “lo spazio applicativo della contravvenzione di cui all’art. 727 comma 2 Cp sarebbe solo quello della condotta colposa”, mentre se fosse ravvisabile il dolo, anche solo eventuale (configurato cioè nella forma di assunzione del rischio di causare un danno all’animale), il comportamento dovrebbe essere fatto “rifluire nell’ambito di applicazione della condotta delittuosa di cui all’art. 544-ter Cp”, che presuppone, appunto, l’elemento soggettivo doloso (cfr. Sent. Trib. Verona, Giudice penale, Sent. n. 2568/2013).

Inoltre, l’art. 544-ter deve considerarsi applicabile quale conseguenza logica qualora sussista l’elemento delle gravi sofferenze volontariamente provocate, non fosse altro per il motivo che ciò può rientrare nel novero dei ‘comportamenti insopportabili’ per l’animale che ne sia vittima.

BENESSERE MOLTO CARENTE O GRAVE SOFFERENZA?

La sentenza di Cassazione citata in premessa consente altre osservazioni.
Il caso del canile oggetto della pronuncia era, infatti, connotato da profili che riconducevano la supposta violazione dell’art. 727 comma 2 Cp non solo al mantenimento dei cani (spazio angusto, insufficiente movimentazione, carenza di pulizia e condizioni sanitarie precarie), ma anche a un presunto stato di sovraffollamento della struttura ospitante, i cui numeri non corrispondevano però al superamento della quota limite di soggetti prevista (365 cani presenti su 500 cani ospitabili).

In assenza di una valutazione e dei relativi esiti sfavorevoli documentabili dunque, anche comportamenti riprovevoli quali quelli sopra elencati, imputati in prima istanza al canile oggetto della prima sentenza citata, riconducono al più a “uno stato di benessere molto carente”. Ma questo concetto, sempre secondo la Cassazione, deve essere considerato “profondamente diverso” e “non va confuso con le ‘gravi sofferenze’ di cui parla il secondo comma dell’art. 727 Cp”.

Oppure, per quanto contrari ai doveri imposti al proprietario/detentore degli animali dalla normativa di settore, non determinano in via automatica né l’integrazione del delitto di cui all’art. 544-ter né quella dell’art. 727 comma 2 Cp, occorrendo verificare che da quelle condotte sia derivata una lesione all’animale o quanto meno una grave sofferenza, un patimento serio e apprezzabile.

Ferma, poi, la valutazione dell’elemento soggettivo e anche la determinazione del nesso causa-effetto tra gli eventi incidenti e il danno derivante.

A completamento del perimetro restrittivo che la giurisprudenza sta delineando per l’applicabilità dei reati in oggetto, si può richiamare infine un’altra pronuncia di Cassazione, risalente al 6/7/2013, in cui si precisava che le sofferenze cui gli animali mal custoditi sono sottoposti devono raggiungere un livello tale da rendere evidente quanto la condizione in cui vengono tenuti siano assolutamente inconciliabile con la condizione propria dell’animale in situazione di benessere.

Tale giudizio, in ogni caso, “va espresso con riferimento alle situazioni contingenti, essendo evidente che una temporanea situazione di disagio dell’animale non può essere confusa con la situazione contra legem enunciata dal comma 2° dell’art. 727”.

IL RUOLO QUALIFICATO E PENALMENTE RILEVANTE DEL MEDICO VETERINARIO 

In definitiva, sulla base dell’orientamento più recente della giurisprudenza, si può concludere che la verifica della sussistenza dei reati che, in forma più o meno grave, compromettono il benessere e la salute psico-fisica degli animali deve basarsi su valutazioni di merito.

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Queste possono comprendere gli elementi documentali (ad es. il numero di animali che una struttura sia autorizzata a detenere) o i requisiti tecnici obbligatori per legge, ma non devono prescindere dalla determinazione delle effettive condizioni dei soggetti coinvolti, tenuto conto di tutti gli elementi contestuali.

Emerge, a tal fine, il ruolo centrale del medico veterinario, quale professionista competente a svolgere una missione non solo qualificata, ma anche, a volte, penalmente rilevante.

Le prerogative che possiede la professione veterinaria le consentono di esercitare una propria discrezionalità d’azione e di valutazione (sempre guidata da scienza, coscienza e diligenza).

In particolare, nelle circostanze in cui debbano essere prese decisioni che possono assumere rilievo di fronte a un giudice penale, gli si richiede un equilibrio peculiare tra assolvere al dovere di ‘fare’, assumendosi una per una le proprie responsabilità, e astenersi da comportamenti passivi, non oggettivi o, peggio, ‘di comodo’.

La Cassazione ha detto chiaramente che sia nel reato di maltrattamento sia nel reato di cui all’art. 727 comma 2 deve essere formulata una diagnosi ponderata e contestualizzata della condizione degli animali.

Si intende che devono essere valutate tutte le circostanze che hanno creato il problema, così che si faccia piena luce su ogni singolo fatto accaduto.

A cura della Dott.ssa Paola Fossati

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