
Il tema della risarcibilità del danno esistenziale, quindi non patrimoniale, è stato ancora oggetto di una sentenza avente a tema gli animali (Cass. n. 17013/2015).
Nel caso erano coinvolti di animali da reddito: un gregge di ovini, che, con belati e suono di campanacci, producevano immissioni acustiche considerate intollerabili dai vicini di casa dei pastori.
Il Tribunale, adito in prima istanza, aveva emanato un provvedimento con il quale, in base all’art. 700 cpc (Dei provvedimenti d’urgenza), imponeva di far pascolare le pecore e tenere in cani da pastore a una distanza di almeno 100 metri dalla proprietà dei vicini stessi, separandoli con apposito recinto.
I pastori erano anche stati condannati a pagare 10.000 euro a titolo di “risarcimento del danno esistenziale da inquinamento acustico e limitazione di movimento”.
I vicini avevano, infatti, invocato la lesione di propri diritti costituzionali, lamentando di aver subito un’ingiusta riduzione “della libertà di spostamento, del tranquillo godimento del domicilio e della serena fruizione del tempo libero”.
In sede di appello, i giudici avevano però riformato la prima decisione del Tribunale, respingendo la domanda di risarcimento “per difetto di prova del danno”.
La possibilità di dimostrare concretamente il pregiudizio subito è indispensabile al fine di stabilire la sussistenza di responsabilità.
L’onere della prova grava sulla parte che si ritiene lesa, sia che ciò riguardi un presunto danno all’integrità psicofisica sia che si lamenti un danno non patrimoniale di natura esistenziale (quale quello che, appunto, potrebbe derivare dall’inquinamento acustico e dalla limitazione del movimento).
In sostanza, in questo caso, non è stato considerato sufficiente che i vicini avessero asserito l’intollerabilità di emissioni sonore provenienti dal gregge, che pascolava in prossimità della loro abitazione.
Essi avrebbero dovuto fornire elementi utili a dimostrare che da ciò era derivato un danno risarcibile.
Di fatto, è mancata la prova “idonea a documentare la verificazione di un pregiudizio, derivante dalle lamentate immissioni, alla loro vita quotidiana, con conseguente impedimento o difficoltà nello svolgimento di attività che ne costituivano parte integrante (in cui si sostanzia, propriamente, il danno esistenziale)”.
Su tali, carenti, basi, non solo non è possibile stabilire il quantum riconoscibile come risarcimento, ma resta in dubbio l’esistenza stessa del pregiudizio.
Intervenendo come terzo grado di giudizio, la Cassazione ha confermato che, anche se astrattamente riconoscibile, il danno deve essere chiaramente un “danno-conseguenza” (cfr. Cass. Sez. Un. Sent. n. 26972/3/4/5 del 2008).
Ne deriva che, anche qualora un’azione fosse astrattamente idonea a provocare un evento dannoso, questa non può essere punita in quanto tale, ma serve “la comprovata sussistenza dei caratteri generali della gravità della lesione e dell’apprezzabile serietà, comunque valutata sul metro dei diritti costituzionali inviolabili, del pregiudizio di cui si chieda il risarcimento”.
Il richiamo alla rilevanza dei diritti costituzionalmente garantiti consente di stabilire un punto di riferimento per l’individuazione della punibilità di un fatto illecito.
In questo modo, si può stabilire un punto di equilibrio tra il dovere istituzionale di garantire la protezione di chi è vittima di un illecito e il dovere di mantenere un debito livello di tolleranza nei rapporti sociali, evitando richieste irragionevoli o pretestuose (il dovere di tolleranza nella convivenza in una collettività sociale è imposto dalla stessa Costituzione, art. 2).
Pertanto, per dirlo ancora con le parole della Suprema Corte, “il risarcimento del danno non patrimoniale richiede, in definitiva, la prova di una violazione che abbia determinato in concreto una lesione la quale, andando oltre la suddetta soglia di tollerabilità, ne renda significativamente apprezzabile la portata e costituzionalmente meritevole il ristoro”.
Spetta al giudice accertare l’esistenza e la congruità di tali requisiti, anche basandosi sul parametro costituito dalla coscienza sociale nel momento storico corrente.
Applicato al caso degli ovini presunti disturbatori, questo principio comporta che l’esposizione alle emissioni sonore di belati e campanacci, per quanto apparentemente intollerabili, non costituisce di per sé una prova dell’esistenza della lesione di un diritto costituzionalmente garantito e, quindi, non può valere come giustificazione per un risarcimento.
Tale diritto, inoltre, deve essere esplicitamente individuato. Nel caso di specie, si può invocare il diritto alla salute, quindi la risarcibilità sarà subordinata all’accertamento dell’esistenza di una lesione fisica o psichica (Cass. n. 25820 del 10/12/2009).
Per quanto riguarda il mutamento delle abitudini di vita (comunque ricollegato al concetto di danno esistenziale), bisogna ugualmente prima prospettare, ma poi anche dimostrare un danno concreto (Cass. n. 4394 del 20/03/2012).
La prova deve essere “diretta e analitica”, anche al fine della successiva determinazione quantitativa del danno.
Nell’affrontare la possibilità di configurare il danno non patrimoniale arrecato da immissioni moleste, la giurisprudenza si sta dunque consolidando sull’attribuzione al ricorrente dell’onere di provare l’effettiva nocività delle immissioni stesse e i danni derivanti alla salute.
Questi ultimi devono essere diagnosticabili come forma di compromissione patologica dello stato psicofisico, mentre non sono considerati sufficienti i semplici “fastidi”, non valgono i pregiudizi connotati da futilità né una “lesività potenziale” del fatto.
Tale orientamento si allinea alla ratio del vigente ordinamento, che non riconosce caratteristiche e finalità semplicemente “punitive” al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo e nemmeno consente il ricorso al danno non patrimoniale come grimaldello utile a consentire l’accesso alla tutela risarcitoria di qualunque disagio patito da un individuo.
In conformità a queste premesse, non bastano le dichiarazioni rese da chi lamenta la molestia e nemmeno vale una certificazione medica generica, ma occorre un referto che attesti la patologia del paziente e, soprattutto, il nesso di causalità tra la stessa e le immissioni ritenute intollerabili e denunciate come tali.
Peraltro, la categoria del danno non patrimoniale in sé è prevista dall’art. 2059 Cc che recita: “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.
Quindi è implicito che la tutela risarcitoria possa essere riconosciuta quando il pregiudizio denunciato sia conseguenza della lesione di almeno un interesse giuridicamente protetto dall’ordinamento.
La giurisprudenza più recente ha reinterpretato questa regola, riconoscendo che il danno non patrimoniale può assumere diverse forme, collegate ad altrettante figure peculiari di torto, da cui derivino ripercussioni dannose.
Anche per questo, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale non può prescindere dall’allegazione, da parte del richiedente, degli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio lamentato.
Il principio per cui, in caso di presunto danno non patrimoniale, è compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio asserito, sulla base di concrete prove, vale anche nel caso in cui gli animali siano parte in causa non come fonte diretta del problema, ma come “prime vittime” dell’evento dannoso da cui derivano le ripercussioni negative sul “valore-uomo”.
Il riferimento è, ad esempio, ai casi in cui si subisca la perdita di un animale d’affezione, a causa di un danno ingiusto.
In realtà la giurisprudenza, a tale proposito, non si è rivelata, finora, univoca. Non è uniformemente accettato, infatti, che la compagnia di un animale rappresenti un diritto della persona, inviolabile e costituzionalmente garantito (cfr. Sent. Tribunale Milano, Sez. V n. 9453/2010).
Tuttavia, in alcune sentenze recenti (cfr. sent. n. 6296 del 29 ottobre 2012; Tribunale di Firenze, sez. II, sent. 14 giugno 2013) è stata riconosciuta la risarcibilità secondo equità del danno derivante dall’interruzione dello speciale rapporto che si instaura tra animale e proprietario.
È innegabile, inoltre, che più leggi dello Stato già tutelano gli animali in quanto esseri viventi e senzienti e anche in quanto animali d’affezione (es. L. n. 201/2010, L. n. 189/04, L. n. 281/91) Si profila, dunque, un futuro, in cui la dottrina, la giurisprudenza e il legislatore stesso dovranno fare chiarezza definitiva sulla possibilità di annoverare il diritto alla conservazione del rapporto uomo-animale tra le attività realizzatrici della persona ex art. 2 della Costituzione e, quindi, tutelarlo quale diritto fondamentale e inviolabile dell’individuo.
A cura della Dott.ssa Paola Fossati