Maltrattamento degli animali, verso la non punibilità?

Il nuovo articolo 131bis del codice penale rende più difficile punire chi maltratta gli animali.

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A cura di: Dott.ssa Paola Fossati

maltrattamento tutela degli animali
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Parlando di maltrattamento degli animali, la revisione del sistema sanzionatorio penale, con introduzione dell’art. 131bis di derubricazione dei reati al fine di consentire una più rapida definizione dei procedimenti giudiziari avviati nei confronti di soggetti che abbiano commesso fatti di rilievo penale, ma caratterizzati da una complessiva minore gravità e sia, inoltre, accertata la non abitualità del comportamento illecito.

Si prevede che questi procedimenti siano conclusi, con decreto di archiviazione o con sentenza di assoluzione, evitando l’avvio di giudizi complessi e dispendiosi qualora la sanzione penale non risulti necessaria.

Resta ferma la possibilità, per le parti offese, di ottenere un adeguato risarcimento nella competente sede civile.

Obiettivo finale è quello di ottenere, nel breve periodo, una diminuzione del carico giudiziario, a favore dello svolgimento dei processi più complessi.

In tale contesto, assume particolare rilievo la questione della “irrilevanza del fatto” (diversa dalla “inoffensività del fatto”), che è la base giuridica della succitata minore gravità dei reati.

Significa che si presuppone che il fatto in oggetto costituisca sì un reato, ma che sia non punibile per i principi “di proporzione e di economia processuale”.

In sostanza, come si legge nello schema di decreto che ha apportato la modifica del Codice penale, “il dispendio di energie processuali” sarebbe in questi casi “sproporzionato sia per l’ordinamento sia per l’autore, costretto a sopportare il peso anche psicologico del processo a suo carico”.

Il succitato principio di proporzione implica, così, la legittimazione di una risposta sanzionatoria depenalizzata.

Come già accennato, la valutazione del fatto in ordine alla possibilità di relativa depenalizzazione deve seguire due indicicriteri di giudizio: la particolare tenuità dell’offesa; la non abitualità del comportamento.

All’interno del primo criterio si definiscono, poi, due ulteriori indicirequisiti, che riguardano, appunto, la “esiguità del danno o del pericolo”, ma anche la modalità della condotta (valutazione sia del grado della colpa, sia dell’intensità del dolo), sulla base dei quali sarà accertata la gravità della colpevolezza.

Per quanto riguarda, invece, il secondo criterio, si sottolinea che non vuole riferirsi al concetto di pura “occasionalità” del fatto; tuttavia, esso implica che la presenza di un “precedente” giudiziario non possa pregiudicare di per sé il riconoscimento della particolare tenuità del fatto stesso.

L’art. 131bis c.p. esclude dalla punibilità “per particolare tenuità del fatto” i reati per i quali sia prevista “la pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva” oppure “la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni”.

Sempre che anche gli altri indicicriteri consentano di inquadrare la condotta, e il danno provocato, nell’ambito dell’esiguità e il comportamento risulti non abituale.

Tra i reati che potranno rientrare in questa categoria sono già stati individuati, ad esempio: l’esercizio abusivo di una professione (art 348 Cp), l’abuso d’ufficio (art. 323 Cp), l’adulterazione e la contraffazione di cose in danno alla salute pubblica (art. 441 Cp), il danneggiamento (art. 635 Cp), la minaccia (art. 612 Cp).

A questi si aggiungono quelli perpetrati a danno di animali, quali l’introduzione o abbandono di animali in fondo altrui (art. 636 Cp), ma anche i reati previsti dalla Legge n. 189/04: art. 544-bis (uccisione di animali), art. 544-ter (maltrattamento degli animali), art. 544- quinquies (divieto di combattimento di animali) e il reato di omissione di soccorso introdotto dal nuovo Codice della strada.

Con l’applicazione dell’art. 131bis, secondo i criteri sopra esposti, in questi casi l’autore sarà punito se si dimostrerà che ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà oppure che ha adoperato sevizie, in danno degli animali.

Altrimenti, il suo comportamento, per quanto lesivo, potrà essere giudicato “di particolare tenuità” e potrà evitare la condanna.

Peraltro, lo schema di decreto contiene anche modifiche al Codice di procedura penale, per cui qualora sia richiesta l’archiviazione di un caso per la particolare tenuità del fatto, la persona offesa potrà presentare opposizione, indicando le ragioni del proprio dissenso.

In astratto, ciò si rende “direttamente” impossibile, nel caso in cui la vittima sia un animale. E, comunque, sarebbe ragionevole pensare che proprietari o associazioni protezionistiche legittimate a esercitare i diritti della parte lesa (cfr. in merito articolo 7 della legge 189/2004, ulteriormente rafforzato dalla sentenza n. 34095 del 12 maggio 2006 Cass. Pen. Sez. III) procederebbero pressoché sistematicamente in tal senso. La specificità di questi reati sarà, pertanto, tenuta in considerazione.

La depenalizzazione dei reati contro gli animali non è, in realtà, materia nuova. Da molti anni, anzi, è oggetto della riflessione penalistica.

La difficoltà nell’ottenere le prime sentenze, le insoddisfazioni da più parti lamentate nell’applicazione della Legge n. 189/04, con riferimento all’individuazione del bene giuridico protetto (la Legge è stata, almeno inizialmente, interpretata in continuità con la norma precedente, che considerava oggetto della tutela non l’animale in sé ma il sentimento di compassione provato dall’uomo quando l’animale subisce crudeltà e ingiustificate sofferenze), in aggiunta ad aspetti tecnici quali la necessità di comprovare il dolo nell’azione e la breve prescrizione dei procedimenti legali, hanno portato parte della dottrina ad avanzare osservazioni critiche, leggendo nella norma un “esercizio di inasprimento sanzionatorio” più che una reale evoluzione giuridica della tutela degli animali.

Poiché, inoltre, il nuovo sistema ha mutato significativamente le pene, inasprendole, si era presto paventata la difficoltà pregiudiziale di superare, da alcune parti, la percezione di uno squilibrio tra l’azione commessa e la gravità della sanzione prevista (comprendente la reclusione).

Si consideri poi, a tale proposito, anche la qualifica giuridica degli animali, equiparati ai beni mobili. In tale quadro, la relativa scarsità di condanne definitive per reati contro gli animali ha finito per rafforzare l’idea di una norma difficile da applicare e, quindi, pressoché priva di effetto deterrente.

Il margine di valutazione sull’idoneità e adeguatezza della sanzione penale è stato, nel tempo, al centro di importanti affermazioni di principio.

Tra queste, proprio la considerazione del “principio di proporzionalità” ha avuto un ruolo non solo come criterio di “proporzione tra gravità del fatto e sanzione penale”, ma anche e in particolare come criterio genera- le di “congruenza degli strumenti normativi rispetto alle finalità da perseguire” (Sent. Corte costituzionale n. 487/1989).

Rapportato alla prospettiva di depenalizzazione in oggetto, questo principio suggerisce che la società attuale non sarebbe poi così pronta ad assumere il valore della vita animale come meritevole dell’impiego dello strumento penale “che per sua natura costituisce extrema ratio, da riservare ai casi in cui non appaiano efficaci altri strumenti per la tutela di beni ritenuti essenziali” (Sent. Corte costituzionale n. 273/2010).

Eppure gli animali, a modo loro lo sono. Forse bisognerebbe ricordare alle Commissioni parlamentari almeno che l’Italia ha già fatto propri principi come quelli contenuti nella Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, divenuta Legge nel 2010, che si basa, tra le altre, sulla considerazione della “importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società”. In una parola, essenziali.

A cura della Dott.ssa Paola Fossati

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